sabato 8 gennaio 2022

Marcotto



Marco era già vecchio quando nacqui o almeno lo pareva.

Chi fosse prima non è dato immaginare, che la sua pelle aveva consistenza di corteccia ed io germoglio non me lo riesco a figurare.

Dietro alla schiena le mani unite a nodo all’altezza della cintola, il passo lento e sicuro sulle pietre.

Quanto ci vedesse non so, ma credo poco, eppure andava a istinto nei suoi boschi, seguiva tracce di memoria. Lo ricordo novantenne calare dal sentiero con in braccio le fascine. Parlava volentieri, uno scuro dialetto reso ancor più impervio dal labbro leporino. Lo si capiva più per consuetudine ed intonazione che per vera comprensione come talvolta accade parlando con stranieri. E dir che meno straniero di lui non sarà più nessuno in quel piccolo paese che tuttora porta – strano caso – il suo cognome.

Tutto è mitologia, a parlar di Marco.

A cominciar dai modi coi quali ti accoglieva, come se fosse casa, a lui, tutto il paese. Financo i boschi, fino in cima alla Gavassa e, intorno, i prati.

Aveva grandi spalle e mani, e spesso, se stavi lì nei pressi, lui più non ti vedeva. Sapeva che tu c’eri, ma percepivi che andava avanti solo. Solo.

Mugugnava un mantra, una canzone.

E che rispetto aveva per le persone! Specie le più distanti. Quelli che avevano studiato, i cittadini; un rispetto ed una curiosità sincera. Mai deferenza.

Davanti alla sua stufa accesa offriva un bicchiere, la porta sempre aperta, ai gatti, alle formiche.

Sul fuoco cucinava bolliti di verdura, che i funghi li coglieva per diletto, per farne dono, ma poi non li mangiava. Ricordo le sue scarpe, parevan fatte di pelle d’elefante, e le canotte bianche rese gialle dall’uso che a volte scordava, nel bosco, appese ai rami. Portava poi camicie spesse ed un cappello sempre calcato sul testone.

Marco non aveva il bagno in casa. “Come una volta”, mi dicevano i grandi da bambino: il bagno dentro casa era un lusso da signori. Si pisciava e si cacava in mezzo al vento.

Nel caso di Marco in fronte a casa aveva un piccolo orticello che si teneva senza troppo lavoro, nell’angolo del quale si ergeva una baracchetta verticale di poche assi dove il buon Marco si svuotava. Aveva scelto un punto ben in vista. Risultava al primo sguardo, la garitta di vedetta di un piccolo reame di cui lui era sindaco e signore. Era la prima cosa a scorgersi dell’intero paese.

Quella garitta, quel regno antico di ortica e rovo è ormai perduto nella realtà del mondo, ma torna chiaro ad abitare i sogni.

 

Marco amava il gioco delle carte: scopone, tresette e poco altro, credo. La domenica inforcava la bici snella col vestito buono e partiva giù in discesa sull’asfalto fino ai paesi più in basso nella valle: Persi, Borghetto, Molo. Prima la messa, poi il bar, le carte. Lo osservavo spesso quando si faceva un tavolo d’estate nella piazzetta o sotto il pergolato. Pareva disattento, guardava altrove, canticchiava, ma teneva a mente le carte anche dopo molte mani, parecchio dopo gli ottant’anni. Quando si verificavano colpi di fortuna rideva forte, rivelando nella voce un tono acuto, sgranando gli occhi come un bambino.

Suscitava sorpresa, dopo minuti di silenzio, possedeva la consistenza e l’odore di un vecchio castagno, vederlo ridere di colpo era quasi una tempesta, spaventava.

Poi, nel vivo del gioco, la sua liturgia prevedeva, al comparire di certe carte o d’alcune giocate, un’esclamazione in dialetto, a volte in rima. A scopone il sette di denari era “il Bello”, la primiera “la Primavera”.

Di lui leggenda vuole che abbia amato una donna del paese, vedova di guerra. Ma se lo ha fatto, è stato con molta discrezione.

Hanno continuato a vivere nelle loro case di pietra a pochi passi di distanza. Ma si tratta di storia antica, io non l’ho mai conosciuta, la Gemma. Hanno continuato a salutarsi, probabilmente complici,  sull’esterno della piazzetta. “Buongiorno Marco”, “Buongiorno Gemma” e poi poche parole e tanti sguardi. Mi piace figurarmeli così, fino al giorno in cui la Gemma morì. Strano è pensar la morte di chi ha dissimulato amore. Che poi, mi chiedo, anche il dolore andrà dissimulato? Si scioglierà poi tutto, come un segreto patto dove i contraenti vengano a mancare, se ne potrà dunque parlare?

Marco proseguì la sua vita come un castagno in un bosco, com’era giusto e semplice fare. E salutando con riverenza i signori di città, calando giù il marrone del cappello, come un sette di denari.

Un anno, ricordo, prese un’oca, più a compagnia che altro; non visto, le parlava. Girava libera per il paese, furba e impertinente, a segnalar “foresti” meglio di un cane da guardia, a correr loro dietro senza alcun timore. Ricordo poi le recite all’aperto, le diapositive. Per ultimo arrivava, con la sua sedia trascinata a mano da casa, si sistemava in un canto e poi guardava tutto immobile.

Come una roccia guarda il tramonto, così il suo viso, ricordo, di lato in prima fila, acceso dalla luce del proiettore, scolpito nel vortice del tempo. E mai perduto.

Poi, quasi di scatto, per primo se ne andava, con un cenno di saluto a tutta la popolazione del suo paese.

Perché era suo davvero, quell’angolo di mondo che ci ostiniamo a popolare, noncuranti, anche ora che manca il suo liberatorio urlo alla finestra nel mattino, ed il bosco custodisce il segreto dei suoi posti migliori per far nascere ovuli e porcini.

Anche ora che tutto pare comodo, e pulito, che noi siamo più stanchi e permalosi e grigi.

Penso alla risata gonfia e libera che ci farebbe in faccia a vederci così.

Alzando un po’ le spalle e poi voltandosi, cercando nella credenza l’ultima gazzosa, per noi,

bambini.


Enrico