Marco era già vecchio quando nacqui o almeno lo pareva.
Chi fosse prima non è dato
immaginare, che la sua pelle aveva consistenza di corteccia ed io germoglio non
me lo riesco a figurare.
Dietro alla schiena le mani unite
a nodo all’altezza della cintola, il passo lento e sicuro sulle pietre.
Quanto ci vedesse non so, ma
credo poco, eppure andava a istinto nei suoi boschi, seguiva tracce di memoria.
Lo ricordo novantenne calare dal sentiero con in braccio le fascine. Parlava
volentieri, uno scuro dialetto reso ancor più impervio dal labbro leporino. Lo
si capiva più per consuetudine ed intonazione che per vera comprensione come
talvolta accade parlando con stranieri. E dir che meno straniero di lui non
sarà più nessuno in quel piccolo paese che tuttora porta – strano caso – il suo
cognome.
Tutto è mitologia, a parlar di Marco.
A cominciar dai modi coi quali ti
accoglieva, come se fosse casa, a lui, tutto il paese. Financo i boschi, fino
in cima alla Gavassa e, intorno, i prati.
Aveva grandi spalle e mani, e
spesso, se stavi lì nei pressi, lui più non ti vedeva. Sapeva che tu c’eri, ma
percepivi che andava avanti solo. Solo.
Mugugnava un mantra, una canzone.
E che rispetto aveva per le
persone! Specie le più distanti. Quelli che avevano studiato, i cittadini; un
rispetto ed una curiosità sincera. Mai deferenza.
Davanti alla sua stufa accesa
offriva un bicchiere, la porta sempre aperta, ai gatti, alle formiche.
Sul fuoco cucinava bolliti di
verdura, che i funghi li coglieva per diletto, per farne dono, ma poi non li
mangiava. Ricordo le sue scarpe, parevan fatte di pelle d’elefante, e le
canotte bianche rese gialle dall’uso che a volte scordava, nel bosco, appese ai
rami. Portava poi camicie spesse ed un cappello sempre calcato sul testone.
Marco non aveva il bagno in casa.
“Come una volta”, mi dicevano i grandi da bambino: il bagno dentro casa era un
lusso da signori. Si pisciava e si cacava in mezzo al vento.
Nel caso di Marco in fronte a
casa aveva un piccolo orticello che si teneva senza troppo lavoro, nell’angolo
del quale si ergeva una baracchetta verticale di poche assi dove il buon Marco
si svuotava. Aveva scelto un punto ben in vista. Risultava al primo sguardo, la
garitta di vedetta di un piccolo reame di cui lui era sindaco e signore. Era la
prima cosa a scorgersi dell’intero paese.
Quella garitta, quel regno antico
di ortica e rovo è ormai perduto nella realtà del mondo, ma torna chiaro ad
abitare i sogni.
Marco amava il gioco delle carte:
scopone, tresette e poco altro, credo. La domenica inforcava la bici snella col
vestito buono e partiva giù in discesa sull’asfalto fino ai paesi più in basso
nella valle: Persi, Borghetto, Molo. Prima la messa, poi il bar, le carte. Lo
osservavo spesso quando si faceva un tavolo d’estate nella piazzetta o sotto il
pergolato. Pareva disattento, guardava altrove, canticchiava, ma teneva a mente
le carte anche dopo molte mani, parecchio dopo gli ottant’anni. Quando si
verificavano colpi di fortuna rideva forte, rivelando nella voce un tono acuto,
sgranando gli occhi come un bambino.
Suscitava sorpresa, dopo minuti
di silenzio, possedeva la consistenza e l’odore di un vecchio castagno, vederlo
ridere di colpo era quasi una tempesta, spaventava.
Poi, nel vivo del gioco, la sua
liturgia prevedeva, al comparire di certe carte o d’alcune giocate, un’esclamazione
in dialetto, a volte in rima. A scopone il sette di denari era “il Bello”, la
primiera “la Primavera”.
Di lui leggenda vuole che abbia amato
una donna del paese, vedova di guerra. Ma se lo ha fatto, è stato con molta
discrezione.
Hanno continuato a vivere nelle
loro case di pietra a pochi passi di distanza. Ma si tratta di storia antica,
io non l’ho mai conosciuta, la Gemma. Hanno continuato a salutarsi,
probabilmente complici, sull’esterno
della piazzetta. “Buongiorno Marco”, “Buongiorno Gemma” e poi poche parole e
tanti sguardi. Mi piace figurarmeli così, fino al giorno in cui la Gemma morì.
Strano è pensar la morte di chi ha dissimulato amore. Che poi, mi chiedo, anche
il dolore andrà dissimulato? Si scioglierà poi tutto, come un segreto patto
dove i contraenti vengano a mancare, se ne potrà dunque parlare?
Marco proseguì la sua vita come
un castagno in un bosco, com’era giusto e semplice fare. E salutando con riverenza i signori di
città, calando giù il marrone del cappello, come un sette di denari.
Un anno, ricordo, prese un’oca,
più a compagnia che altro; non visto, le parlava. Girava libera per il paese, furba
e impertinente, a segnalar “foresti” meglio di un cane da guardia, a correr
loro dietro senza alcun timore. Ricordo poi le recite all’aperto, le diapositive.
Per ultimo arrivava, con la sua sedia trascinata a mano da casa, si sistemava
in un canto e poi guardava tutto immobile.
Come una roccia guarda il
tramonto, così il suo viso, ricordo, di lato in prima fila, acceso dalla luce
del proiettore, scolpito nel vortice del tempo. E mai perduto.
Poi, quasi di scatto, per primo
se ne andava, con un cenno di saluto a tutta la popolazione del suo paese.
Perché era suo davvero, quell’angolo
di mondo che ci ostiniamo a popolare, noncuranti, anche ora che manca il suo
liberatorio urlo alla finestra nel mattino, ed il bosco custodisce il segreto
dei suoi posti migliori per far nascere ovuli e porcini.
Anche ora che tutto pare comodo,
e pulito, che noi siamo più stanchi e permalosi e grigi.
Penso alla risata gonfia e libera
che ci farebbe in faccia a vederci così.
Alzando un po’ le spalle e poi voltandosi, cercando nella credenza l’ultima gazzosa, per noi,
bambini.
Enrico